Flavia
Motolese
C’è tutta la complessità del mondo femminile nella pittura di Debora Gambino. Come affreschi contemporanei che immortalano momenti intimi o di vita quotidiana, le sue opere ritraggono le donne diventando testimonianze vive e realistiche della condizione femminile. La scelta di uno stile mimetico quasi fotografico, disvelato solo dalla consistenza fortemente materica delle sue superfici, crea una maggiore aderenza alla realtà da cui parte il suo racconto per immagini. Non ci sono stereotipi, anzi la forte volontà di rappresentare la vita vera, con tutte le sfaccettature, rivela una inevitabile componente autobiografica. Come ha scritto Elisa Cassissa riferendosi a Nella Marchesini, la prima allieva di Felice Casorati: “Esistenza e pittura diventano una soglia permeabile, un confine trasparente…”. I tanti personaggi che compongono la sua galleria di ritratti convergono in un’unica narrazione corale.
La pittura di Debora Gambino si avvicina a un’istantanea, oltre che per il suo essere retinica, perché capace di proiettare lo spettatore a stretto contatto con il soggetto rappresentato grazie a un taglio di inquadratura spesso ravvicinato. L’introspezione psicologica transita attraverso una riflessione analitica sul corpo e viceversa, non c’è ostentazione dei sentimenti, ma la dichiarata volontà di documentare la realtà con orgoglio e semplicità, prediligendo l’immediatezza comunicativa. La figura è al centro della composizione, è protagonista assoluta e, colta nella propria dimensione intima come ne “La tinozza” di Degas, si offre allo sguardo dello spettatore con spontaneità, svelando se stessa. L’artista si esprime attraverso una figurazione marcata, dai forti accenti chiaroscurali, coniugata alla pulizia formale che accentua corpi plasticamente definiti enfatizzando la carica espressiva e il pathos dell’immagine. Debora Gambino spoglia di ogni ipocrisia la raffigurazione del corpo femminile poiché, ancora prima dell’incoraggiamento ad accettarsi per quello che si è, c’è la risolutezza a comprendere come si è.
Orlando
Manfredi
Davanti ai quadri di Debora Gambino, ci troviamo in una terra di confine, un luogo di frontiera dove l’artista e l’artigiana giocano tra la sapienza manipolatoria e la sperimentazione.
La scelta avventurosa di tecnica e materiali – prevalentemente colori acrilici su patchwork in tessuti d’arredamento, composti e incollati su tela o pannello – si sposa coi contenuti dell’universo privato, dell’identità, della storia personale. Dettagli del vissuto che, disposti nel giusto ordine alchemico, si staccano dal privato per comporre magicamente una storia sociale più ricca e condivisa.
L’artista è una tessitrice di ricordi e la sua opera, più che una semplice raccolta, è una rapsodìa della memoria. Quando decodifichiamo un dato realistico, cadiamo in inganno. Il realismo è solo strumentale e sempre sul filo dell’ambiguità olografica. Sulle diverse scale di grandezza (100×150; 150×200; 250×100, etc.), gli oggetti raffigurati travalicano sempre la misura del reale, acquistando le dimensioni smodate dei ricordi e degli affetti.
Le superfici di stoffa e damasco, sulle quali la tessitrice di ricordi dipinge/ricorda, diventano esse stesse mitopoietiche: falsano le due dimensioni, inducono vertigini e screpolature. Danno profondità a quella memoria che dà più profondità alla vita. Mancando l’ossessione del copista, emerge un’ossessione più bella: privare gli oggetti della loro contingenza e consegnarli al mito. Quel mito che la memoria individuale alimenta.
L’unico rimastoci è, auspicabilmente, inestinguibile.